"Cupola di Roma", nell'inchiesta anche molti personaggi del centrosinistra. Il dossier del Prc di Roma nel 2013

Mentre tutti i fari dei mass media nel raccontare l’inchiesta “Mondo di mezzo” vengono puntati su Massimo Carminati, ex terrorista dei Nar e accusato di aver fatto parte della Banda della Magliana, a piazzale Clodio la sensazione è che siamo solo al principio di un sisma destinato a propagarsi coinvolgendo ampie fette di centrosinistra.

Il governo Renzi vuole la privatizzazione dell'acqua: fermiamolo!

Il Governo Renzi sta tentando di raggiungere il risultato cui sinora nessun governo era riuscito ad arrivare: la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali

Piano Regionale dei Rifiuti. Sgherri:"obbiettivi svuotati e piano che punta alla realizzazione degli inceneritori."

Di Marco Bersani, tratto dal numero di marzo del Granello di sabbia. La crisi sovverte e modifica il quadro geopolitico internazionale, mutando i rapporti di forza a livello internazionale e rimettendo in discussione egemonie storiche, sinora date per indiscutibili.

Preparare la manifestazione del 29

Il Comitato Politico Nazionale di Rifondazione Comunista, convocato il giorno dopo dello sciopero generale della Fiom per valutare la nuova fase che si è aperta con la ripresa del conflitto sociale...

Sentenze MPS: un primo passo nella direzione giusta, ma non ancora sufficienti

Il PRC esprime parziale soddisfazione riguardo alla sentenza con la quale Mussari, Vigni e Baldassarri sono stati giudicati relativamente alla ristrutturazione del derivato Alexandria.

12.06.2013

Nelson Mandela, combattente della libertà

di Maria R. Calderoni – liberazione.it 


Eroe della lotta contro l’apartheid, è morto a 95 anni nella sua casa di Johannesburg. Il paese è in lutto, la gente sfila per le strade e gli uffici hanno le bandiere a mezz’asta. Dal carcere al Nobel, una vita dedicata alla liberazione di un intero popolo oppresso. E’ stato il primo leader nero dopo la fine della segregazione razziale. Si ribellò. Quella era la sua terra, il suo paese, il paese dove era nato e dove erano nati suo padre e sua madre; ma lì, in quel suo paese, una legge detta dell’apartheid rendeva ormai la vita insopportabile e indegna. L’avevano inventata e imposta, quella legge, i dominatori bianchi e, in base ad essa, lui e tutti gli altri africani come lui dovevano subire molte cose.Tanto per dire. Separazione netta tra bianchi e neri nelle zone abitate da entrambi; istituzione dei bantustan, cioè ghetti per soli neri; proibizione dei matrimoni interrazziali; proibizione di rapporti sessuali tra neri e bianchi (costituiva reato passibile di carcere); obbligo di registrazione civile in base alla razza; divieto di accesso a determinate aree urbane; divieto di uso delle stesse strutture pubbliche, tipo fontane, marciapiedi, sale d’attesa; discriminazione nelle scuole e nei posti di lavoro; obbligo di passaporto per accedere alle aree urbane dei bianchi; divieto di ogni forma di opposizione (in special modo se di stampo socialista, comunista e comunque in qualche modo riferibile all’AFC, African National Congress). Prigionieri nella propria terra, esclusi e assoggettati, defraudati dei loro diritti e delle loro risorse. Quello era il Sudafrica, la sua terra. Una terra bellissima, con terreni fertili e clima mite, ricca di minerali preziosi (platino, diamanti, oro), diventata colonia e dominio di olandesi e inglesi fin dal secolo XVII. Quella sua terra strangolata dai crudeli padroni bianchi (è sotto il governo di Hendrich F. Verwoerd, passato alla storia come il perfezionatore, anzi “l’architetto dell’apartheid”, che la segregazione dal 1948 è diventata compiuta legge di Stato). Si ribellò. Lui, Nelson Mandela, a tutto questo decide di ribellarsi. Per la verità il suo vero nome è un altro. È nato il 18 luglio 1918 in un piccolo villaggio del Transkei e, come tutti in Sud Africa, acquisisce il nome inglese di Nelson il I° giorno di scuola; ma il suo vero nome è Rolihlahla, che poi significa “quello che porta guai”. Lui non è nemmeno tra i più sfortunati; lui è figlio di un capotribù Thembo, un nero che riesce ad andare scuola, grazie alla protezione del reggente Jongitaba, amico della sua famiglia, che diventa suo tutore dopo la morte del padre; ed è un nero che può persino studiare, conquistarsi un diploma e poi addirittura una laurea in giurisprudenza; lui che non è solo un miserabile “negro” in mano afrikaner. La sua storia la racconta lui stesso nella autobiografia che ha per titolo “Lungo cammino verso la libertà” (Feltrinelli, 1997); un libro che è anch’esso una perigliosa conquista. Mandela lo scrive di nascosto nel 1974, mentre è detenuto nel carcere di Robben Island; ma il manoscritto viene scoperto, confiscato e distrutto. I suoi due compagni di cella ne hanno però trascritto e nascosto una copia; ed è così che quelle emozionanti 579 pagine sono giunte sino a noi. Uscito dalla prigione nel 1990, Mandela ne finisce la stesura e il libro viene pubblicato nel 1994, titolo inglese “Long walk to freedom”. Solo questo. «Ho percorso questo lungo cammino verso la libertà sforzandomi di non esitare, e ho fatto alcuni passi falsi lungo la via. Ma ho scoperto che dopo aver scalato una montagna ce ne sono sempre altre da scalare». Solo questo. Il lungo cammino. Nient’altro che la strenua lotta per riscattare il suo popolo da una vita «senza pietà, senza voce, senza radici, senza futuro». A 18 anni, nel ’39, Nelson è ammesso all’Università di Fort Hare; fa pratica legale presso lo studio di un avvocato ebreo; e alla Facoltà di Giurisprudenza – racconta – «sono l’unico studente africano», era visto come un intruso, nessuno si sedeva vicino a lui e i professori gli «consigliarono» di continuare gli studi «per corrispondenza». Nessuno gli aveva insegnato come battersi contro l’odioso dominio bianco. Ma è in quegli anni che diventa amico di comunisti, ebrei e indiani, tutti ragazzi della sua età che quel dominio bianco lo vogliono combattere. Insieme a loro, con Walter Sisulu e Oliver Tambo, fonda la Lega giovanile dell’ANC (African National Congress), l’organizzazione che, insieme al Partito comunista, si batte contro l’apartheid. È con loro, coi ragazzi della Lega, che nel 1942 partecipa alla marcia dei 10.000 nella città di Alexandria (dove si è trasferito) organizzata per il boicottaggio degli autobus; non si fermerà più; la «miriade delle indegnità e delle offese» lo porta alla scelta che sarà quella di tutta la sua vita, quella di combattere «il sistema che imprigionava il suo popolo». Quel sistema che spara sui minatori in sciopero, come nel ’46 avviene nella miniera d’oro di Reef, 12 morti, migliaia di arresti, centinaia di processi per sedizione ai tanti comunisti che a quella lotta hanno partecipato. Nel febbraio 1952 l’ANC organizza una grande manifestazione di disobbedienza civile contro la segregazione, provocando la reazione del governo che, come sempre, è durissima. La sede dell’Anc è perquisita e Nelson arrestato per la prima volta. Quelli erano giorni, annota nel suo libro, nei quali era molto difficile per un nero vivere a Johannesburg. Infatti, «era un crimine passare per una porta riservata ai bianchi; un crimine viaggiare su un autobus riservato ai bianchi; un crimine bere ad una fontana riservata ai bianchi; un crimine passeggiare su una strada riservata ai bianchi, essere in strada dopo le 11 di sera, non avere il lasciapassare; era un crimine essere disoccupati e un crimine lavorare nel posto sbagliato, un crimine vivere in certi posti e un crimine non avere un posto dove vivere». E sono, quelli, anche i giorni delle evacuazioni di massa a Sophiatown, Martindale, Newclarc, dove quasi 100.000 africani vengono brutalmente buttati fuori dalle loro case. A lui intanto, rilasciato dal carcere, viene consegnata un’ingiunzione che gli impone di dimettersi dall’ANC; di non uscire dal distretto di Johannesburg; e di non partecipare a riunioni o convegni di qualsiasi tipo per due anni. E contemporaneamente viene chiesta la sua radiazione dall’Albo degli avvocati. Sono anche i giorni in cui Sophiatown, che ha cercato di ribellarsi all’evacuazione, deve cedere sotto i colpi della violenza afrikaner; e anche i giorni in cui, grazie al Bantu Educational Action, il governo si accaparrava direttamente il controllo di tutta l’istruzione, in pratica imponendo per gli africani una scuola di livello inferiore. Sulle ali della lotta. La Carta delle Libertà nasce il 26 giugno 1955 in una straordinaria manifestazione promossa a Kiptown dal’ANC: «Noi, il popolo del Sudafrica». È un testo poetico e fortissimo, di denuncia e ribellione in nome dei diritti dell’uomo e della dignità, alla cui stesura collabora con slancio anche Mandela. Le inaudite parole sono state scritte. «Il Sudafrica appartiene a tutti coloro che ci vivono, bianchi e neri». «Il nostro popolo è stato defraudato dal diritto, acquisito alla nascita, alla terra, alla libertà e alla pace, da una forma di governo basata sulla ingiustizia e l’ineguaglianza». «Il popolo governerà». «Tutti saranno uguali davanti alla legge e tutti godranno degli stessi diritti dell’uomo». Sulle ali della Carta. Arrivano le prime grandi manifestazioni di massa, e la repressione è durissima; cariche della polizia, denunce, arresti, sedi e movimenti dichiarati fuorilegge. E parte anche la caccia agli attivisti e agli animatori della Carta. Inevitabilmente tocca a Mandela. All’alba del 5 dicembre ’56 la polizia irrompe nella sua casa e lo arresta davanti ai due figli; l’accusa è alto tradimento; con lui, altri 156 compagni subiscono la stessa sorte, e tutti sono trasferiti nella prigione di Johannesburg, “La Fortezza”, una tetra costruzione in cima a una collina nel cuore della città. Per “alto tradimento”, la legge afrikaner prevede la pena di morte. Il 19 dicembre si apre il processo: ci vogliono due giorni per leggere le 18.000 parole dei capi d’accusa; ma, grazie a un grande collegio di difesa e ai fondi raccolti dall’ANC, quella volta – dopo un processo che si trascina per cinque anni – tutti vengono assolti e rilasciati su cauzione. Non c’è pace né giustizia e nemmeno pietà. Il 10 marzo 1960 a Shaperville la polizia spara su un corteo di manifestanti disarmati; una strage. Il tragico episodio segna una svolta per l’ANC e anche per Mandela. Per cinquant’anni la non-violenza è stato uno dei principi basilari del movimento anti-apartheid. Ma ora, di fronte alla repressione sempre più brutale e sanguinosa, brandire la Carta e i suoi nobili principi, organizzare solo cortei di protesta sembra non bastare più; ora sembra giunto il momento di ricorrere anche a più drastici mezzi. Nasce il Mk – acronimo di “Umkhonto we Sizwe”, che vuol dire “Lancia della Nazione” – l’ala armata dell’ANC e Mandela ne diventa il comandante. Sabotaggio, scontri con la polizia, contro-assalti, propaganda, raccolta di fondi anche all’estero, campi di addestramento para-militari. Dicesi lotta. Mandela è costretto a darsi alla clandestinità, diventa la “Primula Nera”, l’africano più ricercato del continente. Dura diciassette mesi; ma una sera, sulla strada di Johannesburg – si sospetta su segnalazione della Cia – viene catturato. Processo, autodifesa, pesante condanna: cinque anni di durissimo carcere a Esiquitin, uno scoglio a 18 miglia da Città del Capo. Passa solo qualche mese. Ma un’irruzione della polizia nella sede generale del Mk a Rivonia mette le mani su documenti che attesterebbero un piano di cospirazione, invasione armata, insurrezione; è un’ondata di arresti e per Mandela, già incarcerato, scattano nuove e più gravi accuse. Sono reati da pena di morte; e lui la morte se l’aspetta. Coi suoi compagni concorda una strategia di difesa: più che sulla legalità sarà basata sui «principi morali». Impiega quindici giorni a preparare il suo intervento davanti alla Corte. «Vostro Onore, io sono l’imputato numero uno Nelson Mandela. Non io, ma il governo dovrebbe trovarsi alla sbarra. Mi dichiaro non colpevole». Parlerà per oltre quattro ore. «Il mondo seguiva con grande attenzione il Processo Rivonia. Nella cattedrale di St.Paul a Londra si tennero veglie per noi; gli studenti dell’università di Londra mi elessero presidente in absentia della loro associazione». Venerdì 12 giugno 1964, «tornammo per l’ultima volta in tribunale. Il servizio di sicurezza era più imponente che mai», strade bloccate al traffico e polizia ovunque. Ma, «nonostante le intimidazioni, almeno duemila persone si erano radunate davanti al tribunale con striscioni e cartelli che dicevano: “Siamo al fianco dei nostri capi”». Non furono condannati a morte (anche grazie alla grande pressione internazionale). La sentenza fu l’ergastolo per tutti gli imputati. Agli anni del carcere, Mandela dedica un lungo capitolo intitolato: “Robben Island, gli anni bui”. Anni terribili in un carcere spaventoso; la cella lunga 3 passi e larga meno di 2 metri, i pochi oggetti disponibili, la sporcizia, la quasi mancanza di corrispondenza, il vitto orribile, il lavoro massacrante nella cava di pietra. Ma lui non cessa di combattere. È rinchiuso da più di vent’anni, ma in quell’anno 1985 perviene all’ANC il suo “Manifesto”: «Unitevi! Mobilitatevi! Lottate! Tra l’incudine delle azioni di massa e il martello della lotta armata dobbiamo annientare l’apartheid!» Mandela rimane in carcere fino all’11 febbraio 1990. Fu lo stesso nuovo presidente del Sudfrica a dargli la notizia della scarcerazione. Subito dopo essere stato eletto, de Klerk aveva cominciato a smantellare l’apartheid: apre le spiagge sudafricane ai cittadini di tutte le razze, annuncia l’abrogazione del “Reservation of Separation Amenities Part”; il 2 febbraio 1990 revoca la messa al bando dell’ANC, del Communist Part e di altre 317 organizzazioni che erano state dichiarate illegali; decreta la scarcerazione di tutti i prigionieri politici non colpevoli di atti di violenza, nonché l’abrogazione della pena capitale. Il 27 aprile 1994 è la data delle prime elezioni non razziali e a suffragio universale del Paese. Mandela diventa presidente: è il primo presidente nero del Sudafrica. Resterà in carica fino al 1999. Le ferite sono profonde e laceranti. Ma il presidente nero non insegue la ritorsione e la vendetta. In nome di quel suo popolo che ha tanto sofferto, ha creato una “Commissione per la Verità e la Riconciliazione” per far luce sui crimini dell’Apartheid; i colpevoli che confessano sono perdonati, ed è concessa un’amnistia pacificatrice. Per questo, dopo il Premio Lenin ricevuto nel 1962, nel 1993 gli viene dato il Nobel per la pace. Tanti anni sono passati. Il Combattente ora è un po’ stanco. «Mi sono fermato un istante per riposare, per svolgere lo sguardo allo splendido panorama che mi circonda, e per guardare la strada che ho percorso». Nell’ultima riga della sua autobiografia ha lasciato scritto che il «lungo cammino» deve continuare. «Non vi è alcuna strada facile per la libertà».

Sugli scioperi degli autoferrotranvieri

Riceviamo dalla Confederazione Cobas di Pisa, e volentieri pubblichiamo, il seguente comunicato  che ben sintetizza le ragioni degli autoferrotranvieri che da oggi stanno scioperando ad oltranza anche in Toscana ed a cui il nostro Circolo -nel suo piccolo- vuole dare piena solidarietà!!

"Sta andando in scena da troppo tempo un pesante ridimensionamento del trasporto pubblico, di quello ferroviario come di quello locale, con pesanti ripercussioni sulla qualità del servizio per la popolazione e sulle condizioni di lavoro e le retribuzioni dei dipendenti. Due settimane fa gli autoferrotranvieri genovesi si sono ribellati -con massicci scioperi a oltranza durati 5 giorni- alla privatizzazione dell’AMT, sostenuti dalla solidarietà della cittadinanza, certo danneggiata dalla mancanza del servizio, ma convinta che quella lotta avesse obiettivi giusti per tutti, per il personale come per i passeggeri. In Toscana, la nascita della società CTT (che ha messo insieme la CPT di Pisa, la CLAP di Lucca e l’ATL di Livorno) sta rappresentando, con la cancellazione degli accordi integrativi, un attacco senza precedenti al salario, con le buste paga dei dipendenti di Pisa e di Livorno taglieggiate di 250-300 euro al mese e con l’organizzazione dei turni degli autisti che è un autentico massacro della loro salute e una devastazione dei loro diritti. A Firenze, l’ATAF, privatizzata a prezzi stracciati per decisione del sindaco Renzi, marcia spedita verso l’immiserimento delle buste paga, mentre è già stata pesantemente aggravata la prestazione lavorativa. È a questa politica spietata delle società che i lavoratori di Firenze e di Pisa sono stati costretti a rispondere con gli scioperi a oltranza di giovedì e di venerdì, fuori dalle norme previste dalla legge che disciplina il diritto di sciopero nel trasporto pubblico, o meglio che rende simbolico il ricorso allo sciopero. Lo sciopero con le normative di legge diventa cosi’ inefficace, un’arma spuntata, a esclusivo vantaggio delle imprese, le quali in questo modo possono imperversare sui diritti dei cittadini e dei lavoratori, nella certezza di non doverne pagare lo scotto. Scioperi necessariamente a oltranza, in primo luogo contro l’oltranzismo delle aziende di trasporto, ma anche contro una legge sul diritto di sciopero che è stata concepita per impedire ai lavoratori ogni tipo di tutela economica e normativa. Gli Scioperi a oltranza sono espressione del diritto di legittima difesa nei confronti dell’assalto senza scrupoli portato dalle società alla condizione dei lavoratori e a un bene pubblico qual è il trasporto delle persone."

12.02.2013

Berlusconi decade, le sue politiche rimangono

La decadenza da senatore di Silvio Berlusconi è sicuramente un fatto positivo: il Parlamento è stato liberato da uno dei suoi peggiori elementi. Un personaggio, oltre che un pregiudicato, che in 20 anni ha spazzato via le enormi conquiste sociali ottenute con le battaglie dei decenni passati. Ma la sua eredità è stata ormai da tempo raccolta da tutte le forze politiche che oggi si ritrovano nel governo delle Larghe Intese, decise a rappresentare gli interessi euro/tedeschi in Italia e a far pagare la loro crisi ai lavoratori, ai disoccupati, agli studenti e a tutti i soggetti deboli della società, mantenendo i propri privilegi. 
Abbiamo davanti due scelte 
  1. continuare a credere alla favola che la crisi passerà, intravedendo un cambiamento in un personaggio come Renzi, che sostanzialmente continuerà sul solco tracciato da Berlusconi. La crisi non passerà, anzi aumenterà, se a cambiare non è il modello di sviluppo. 
  2. dare veramente un indirizzo politico diverso, a partire dall'annullamento della controriforma Fornero, dal ripristino dell'articolo 18,dalla revisione dei trattati internazionali che impongono all'Italia manovre economiche durissime, dal garantire a tutti una casa e un lavoro andando a prendere i soldi laddove ci sono, e cioè nelle tasche di quel 10% di ricchi che detiene il 50% dei capitali, e nazionalizzando settori strategici della produzione e della finanza, in modo da poter rilanciare l'economia italiana su basi completamente nuove! 
 

Se la Cina non compra più dollari

 di Valerio Lo Monaco

Molto semplicemente, con una scelta sovrana, la Banca Centrale cinese ha dichiarato senza mezzi termini che “accumulare riserve in valute estere non raccoglie più i favori della Cina”. Tutte le valute, naturalmente, ma in modo particolare, e certamente preoccupante per gli Stati Uniti, a essere oggetto di questa decisione è il biglietto verde. Si tratta della notizia più importante, a livello macroeconomico e geopolitico, delle ultime settimane. La stampa internazionale non le ha dato grande risalto, quella interna italiana non ne ha parlato proprio: tutta presa, come è da mesi e mesi, a commentare le quisquilie interne. Ivi inclusa la grottesca battaglia attorno ai 2 miliardi di euro per abolire la seconda rata dell’Imu nello stesso momento in cui l’Italia ne spende 1600 all’anno e ne dovrà trovare ulteriori 50 nel corso del 2014 per rispettare il Fiscal Compact sottoscritto a suo tempo. Come se in una qualunque famiglia si discutesse all’infinito per trovare il denaro per andare a mangiare una pizza in quattro a fronte di tutte le altre spese del bilancio. Tornando alle cose che contano, invece, questa della Banca Centrale cinese è veramente una sorta di bomba. Le riserve, ancora al quarto trimestre del 2013, ammontavano a circa 3,66 trilioni di dollari. L’accumulo da parte della Cina di moneta statunitense avviene da anni e anni, operazione messa in piedi per tenere alto il livello del dollaro e allo stesso tempo basso quello dello yuan, onde rendere quest’ultimo estremamente competitivo per le esportazioni cinesi. Ma la musica sta cambiando. Già da un po'. E dunque, con questa decisione, si imprime una nuova accelerazione alla strategia già in atto da tempo di dismissione delle riserve in valuta statunitense. Sono già anni, ormai, che l’acquisto di titoli di Stato Usa è calato da parte della Cina. E ora calerà ulteriormente. Gli Usa dovrebbero tremare. Ancora di più rispetto a quanto già dovrebbero aver iniziato a fare da tempo. Perché se in primo luogo la politica economica cinese ha favorito le aziende interne a sfavore di tutte le altre nel resto del mondo (cosa che riguarda anche noi, beninteso) il fatto che oggi si dichiari che la Cina non trae più alcun beneficio dall’accumulo di valute estere significa una cosa sopra ogni altra: lo yuan è pronto a invadere il mondo. Ovviamente sostituendo, via via, le altre valute internazionali usate per gli scambi. Dollaro in primo luogo. Dal punto di vista prettamente statunitense, la cosa è di portata enorme. Per avere dei prestiti gli Usa dipendono fortemente da chi acquista, e dunque ne sottolinea e mantiene il valore, i titoli di Stato. Ma se questi iniziano a non essere più graditi, oltre al fatto di non riuscire più a piazzarli agli stessi interessi di prima, il problema è molto più ampio, perché gli Usa soprattutto hanno nella politica del “debito di Stato” la loro unica motivazione di reggersi ancora in piedi. Se i titoli di Stato Usa non vengono più acquistati, il dollaro, di fatto, inizia a non valere più nulla. Già ora, malgrado siano riusciti a tenere la propria moneta in vita contro tutte le logiche economiche e persino meramente aritmetiche, gli Usa non riescono a far quadrare i propri conti, vedi i fatti recenti dello Shutdown federale e del Fiscal Cliff, peraltro rimandato, quest’ultimo, a metà febbraio 2014. Cioè praticamente a dopodomani. Ma tutto si regge, da sempre, sulla “promessa” del valore della sua moneta. Ecco, se ora questa moneta non è più apprezzata tanto che il primo acquirente mondiale inizia sul serio a disdegnarla, è facile immaginare quali potranno essere i contraccolpi oltre Atlantico. E, beninteso, per tutte le altre economie legate a vario titolo alla tenuta del dollaro. Europa inclusa. Cresceranno probabilmente i tassi di interesse che gli Usa dovranno concedere per vendere i propri titoli. Il che, oltre ad aprire degli enormi ulteriori insormontabili problemi all’amministrazione statunitense, disvela anche lo scenario ulteriore che abbiamo accennato: iniziare a usare lo yuan come valuta di riserva internazionale e soprattutto come moneta di scambio per materie importanti per ora appannaggio esclusivo del dollaro. Petrolio in testa. Alla Borsa di Shanghai, secondo la Reuters, si inizierà prestissimo a quotare i diritti di acquisto (futures) sul greggio in yuan. A cosa servirà più dunque il dollaro? E a cosa “serviranno” più gli Usa? Come si terranno in piedi? Dalle sconfitte internazionali delle politiche neocons di Iraq e Afghanistan alla crisi dei subprime agli schiaffi presi giorno per giorno dalla Russia sul caso Siria e Iran sino a questo ulteriore pugno in pieno volto proveniente da Shanghai: l’Impero sta per cadere in ginocchio. Allora, molto chiaramente: la Cina è pronta per diventare il punto di riferimento per tutta l’Asia, in sostituzione degli Stati Uniti e, complice anche la decadenza costante dell’Euro, a questo punto non si vede altra moneta mondiale, e altra potenza commerciale, in grado di contrastarla. Da Oriente a Occidente. Tempi. Non brevissimi, naturalmente. Questa della dismissione di dollari è politica in atto ormai da anni, e la tappa relativa al commercio di petrolio in yuan necessita di passaggi successivi. Ma la direzione è quella. Conseguenze. Le merci acquistate dagli statunitensi, dopo la caduta del dollaro, costeranno molto di più. E il tenore di vita tenuto artificiosamente alto, o almeno a galla, dopo lo scoppio dell’ultima crisi, è destinato a crollare sensibilmente. La falsa - e cieca - prosperità degli Stati Uniti appare arrivata al termine e a presentare i conti. Ma la domanda da porsi, più importante, è quanto e come gli statunitensi reagiranno a un declino repentino del loro Paese e al crollo delle condizioni di consumo e vita. Sono lontanissimi i tempi in cui Bush dichiarava senza mezzi termini che «il tenore di vita degli americani non può essere messo in discussione». Ora in discussione lo è eccome. E si tratta di capire come si comporteranno la popolazione e lo Stato. Perché una cosa è certa: a una azione di questo calibro della Cina non potrà che esserci una reazione Usa. 

Bolivia: otto anni di nazionalizzazioni, economia in crescita

da Contropiano.org

Lo Stato boliviano controlla oggi il 38% dell’economia nazionale grazie alla politica di nazionalizzazioni applicata dal 2006, con l’arrivo al potere del primo presidente indigeno, Evo Morales, quando l’indice era del 15%. Esponendo il modello economico boliviano all’Universidad Gabriel René Moreno di Santa Cruz, motore economico del paese e roccaforte dell’opposizione conservatrice, il vice presidente Álvaro García Linera ha precisato che sono state nazionalizzate in modo progressivo le imprese-chiave dell’economia. In complesso sono state una ventina, fra cui quelle degli idrocarburi, delle telecomunicazioni, dell’elettricità, delle attività minerarie, della gestione degli aeroporti, della produzione del cemento. Molte di queste aziende, tuttavia, non hanno ancora ricevuto le compensazioni dovute per le espropriazioni e hanno intrapreso azioni giudiziarie internazionali contro lo Stato o hanno minacciato di farlo. García Linera ha motivato le nazionalizzazioni affermando che per la Bolivia era essenziale trattenere le eccedenze dei diversi settori e trasformarle in “motore dell’economia nazionale”, che quest’anno registrerà una crescita del 6,8%, la più alta in 28 anni. In vice presidente ha insistito sostenendo che la crescita non può essere spiegata solo dall’aumento degli introiti del gas esportato in Brasile e Argentina, ma bensì individuata nel cambio del regime di proprietà delle aziende strategiche. Circa otto anni fa il Pil boliviano era stimato in 8 miliardi di dollari; oggi si aggira sui 32 miliardi di dollari. 


WikiLeaks: l'accordo segreto tra Usa e don Giussani per fermare il Pci

 da Huffington Post del 08/04/2013


 Tra i nuovi documenti diffusi da Wikileaks ce n’è uno particolarmente interessante per l’Italia: una comunicazione diplomatica del 19 dicembre 1975 tra il consolato Usa a Milano e la Segreteria di Stato di Washington, in cui il console americano riporta il contenuto di un dialogo avuto con il fondatore di Comunione e Liberazione don Luigi Giussani. Argomento: un “accordo segreto” tra la Segreteria di Stato di Henry Kissinger e il fondatore di Cl per fermare l’avanzata del Partito Comunista in Italia, finanziando le attività e i media del Movimento Popolare. Il braccio politico di Cl appena nato sotto la guida dell’allora ventottenne Roberto Formigoni e con l’aiuto del futuro cardinale di Milano Angelo Scola.
I documenti, pubblicati oggi da L’Espresso, raccontano un dialogo molto chiaro. Il console americano incontrò don Giussani per sapere come gli Stati Uniti potevano aiutare il movimento. La risposta del fondatore di Cl fu molto diretta: “Potete aiutare il Movimento Popolare . E darci una mano nel campo della comunicazione e dei media”. Non quindi un appoggio diretto a Comunione e Liberazione, ma un aiuto al Movimento Popolare di Formigoni, lo strumento attraverso il quale realizzare il progetto di Cl sulla società italiana (“estendere una guida positiva oltre il terreno religioso”).
Nel ’75 l’Italia rappresentava la preoccupazione più grande per gli statunitensi in Europa. In quell’anno alle elezioni amministrative il Pci balzò al 33,4%, accorciando a due punti percentuali la distanza dalla Democrazia Cristiana. Un risultato che – come ricorda oggi Repubblica – sorpresa anche la Cia. Di qui la “missione” del consolato Usa a Milano di capire come “aiutare” il movimento di Comunione e Liberazione nella sua opera di contrasto alla sinistra.
“Quello di cui c’è necessità – scrisse il console alla Segreteria di Stato – è lo sviluppo dei canali mediatici. In particolare, c’è bisogno di un nuovo settimanale ma non direttamente d’impronta cattolica. Famiglia Cristiana si rifiuta di aiutare Cl, ma anche se lo facesse non raggiungerebbe quei gruppi che sarebbe necessario raggiungere”. Il problema – spiegò don Giussani al console – erano i soldi: l’organizzazione non era particolarmente florida. È a questo punto che il console chiese al fondatore di Cl come gli Usa potevano aiutare e dare il loro “contributo alla democrazia italiana”. Il sacerdote rispose deciso: sostenendo il Movimento Popolare e i media legati a Cl. Un paio di anni dopo nasceva un nuovo settimanale cattolico: Il Sabato.