"Cupola di Roma", nell'inchiesta anche molti personaggi del centrosinistra. Il dossier del Prc di Roma nel 2013

Mentre tutti i fari dei mass media nel raccontare l’inchiesta “Mondo di mezzo” vengono puntati su Massimo Carminati, ex terrorista dei Nar e accusato di aver fatto parte della Banda della Magliana, a piazzale Clodio la sensazione è che siamo solo al principio di un sisma destinato a propagarsi coinvolgendo ampie fette di centrosinistra.

Il governo Renzi vuole la privatizzazione dell'acqua: fermiamolo!

Il Governo Renzi sta tentando di raggiungere il risultato cui sinora nessun governo era riuscito ad arrivare: la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali

Piano Regionale dei Rifiuti. Sgherri:"obbiettivi svuotati e piano che punta alla realizzazione degli inceneritori."

Di Marco Bersani, tratto dal numero di marzo del Granello di sabbia. La crisi sovverte e modifica il quadro geopolitico internazionale, mutando i rapporti di forza a livello internazionale e rimettendo in discussione egemonie storiche, sinora date per indiscutibili.

Preparare la manifestazione del 29

Il Comitato Politico Nazionale di Rifondazione Comunista, convocato il giorno dopo dello sciopero generale della Fiom per valutare la nuova fase che si è aperta con la ripresa del conflitto sociale...

Sentenze MPS: un primo passo nella direzione giusta, ma non ancora sufficienti

Il PRC esprime parziale soddisfazione riguardo alla sentenza con la quale Mussari, Vigni e Baldassarri sono stati giudicati relativamente alla ristrutturazione del derivato Alexandria.

2.27.2014

La nuova legge elettorale peggiore della precedente

La Costituzione della Repubblica italiana definiva in modo chiaro i ruoli dei vari organi dello Stato. Il Parlamento doveva fare le leggi, trovando convergenze particolari sui singoli provvedimenti. Al governo toccava eseguire (non a caso si chiama “esecutivo”) e solo in casi di provata emergenza poteva emanare decreti-legge, scavalcando il Parlamento. Eppure da vent’anni a questa parte si è avuto un progressivo stravolgimento dei ruoli. I governi (di tutti i colori) hanno iniziato a decidere a suon di decreti, che il parlamento poi doveva solo ratificare. Si è creato il mito della “governabilità” si è preteso di semplificare il quadro politico, cancellando le voci fuori dal coro. E parte essenziale di questo disegno volto a blindare un certo ceto politico, è stata la modifica del sistema elettorale. Le riforme del ’93 (mattarellum) e del 2006 (dal nome significativo di “porcellum”) sono servite a comprimere le diverse opzioni politiche in due blocchi simili, che hanno finto per alcuni anni di essere alternativi fra loro, per poi finire a governare allegramente assieme, in nome e per conto delle banche e dei poteri forti. La legge elettorale del 2006 aveva permesso l’imposizione di questo regime bipolare: 
  1. imponendo ai partiti indipendenti una percentuale minima -per entrare in Parlamento- doppia rispetto ai partiti coalizzati. Cioè un partito fuori dal coro per entrare in Parlamento aveva bisogno del 4%, mentre una forza “allineata” poteva accedere con soltanto il 2% dei voti. 
  2. imponendo la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera alla forza che prendeva più voti, anche se sul piano proporzionale era molto lontana dal 50%. Così si escludeva a priori la necessità costituzionale di ricercare una maggioranza sui singoli provvedimenti. 
  3. imponendo liste bloccate di persone scelte dai dirigenti di partito, senza la possibilità per i cittadini di esprimere preferenze o manifestare “distinguo” all’interno dei singoli partiti. 
Dopo sette anni dall’approvazione del “porcellum” finalmente la Corte Costituzionale ha emesso la sentenza di incostituzionalità per i tre motivi sopra elencati. E la risposta delle due principali forze politiche (PD e PDL) quale è stata? Semplicemente reinventarsi una nuova legge elettorale, che RIPROPONE TUTTI E TRE GLI ELEMENTI DI INCOSTITUZIONALITA’, OLTRETUTTO INGIGANTITI. Infatti nel disegno Renzi-Berlusconi : 
  1. Si ripropongono gli sbarramenti “differenziati” fra i partiti fuori dal coro ed i partiti allineati. Semplicemente si raddoppiano le percentuali minime (8% per i partiti indipendenti–4,5% per gli allineati). In più si inventano meccanismi che consentono di entrare in Parlamento anche agli “allineati” che non raggiungono la quota (altro che semplificazione!) 
  2. Si ripropone il premio di maggioranza assoluta per la forza che prende più voti, e se da un lato si stabilisce almeno una quota minima (35 o 37%) per far scattare il premio, dall’altro si estende ad entrambe le camere, blindando la maggioranza. 
  3. Si ripropongono le liste bloccate, senza possibilità di esprimere preferenze, esattamente come nel “porcellum”. 
Sicuramente la nuova legge elettorale –se verrà approvata- sarà oggetto di una bocciatura da parte della Corte Costituzionale, esattamente come la precedente. Ma con i tempi biblici di cui hanno bisogno gli organismi giudiziari italiani, nel frattempo la classe dirigente si sarà assicurata un altro decennio di potere senza interferenze...

Una nota sul mio ex-professore: Pier Carlo Padoan

di Emiliano Brancaccio 

 Pier Carlo Padoan fu uno dei miei professori durante i corsi del master in Economia del Coripe Piemonte, presso il Collegio Carlo Alberto. Sebbene fosse un master rigorosamente “mainstream”, ricordo che le lezioni di alcuni docenti, come Luigi Montrucchio e Giancarlo Gandolfo, suscitavano il nostro vivo interesse e alimentavano le discussioni. Tra i docenti c’era pure Elsa Fornero, che nel ruolo di professoressa rendeva indubbiamente molto meglio che in quello successivo di ministra. Rammento che invece non eravamo particolarmente entusiasti delle lezioni di Padoan. Forse a causa degli alti incarichi che all’epoca già ricopriva, in aula appariva un po’ distratto, vagamente annoiato, non particolarmente persuaso dai grafici che egli stesso tracciava sulla lavagna. Di una cosa tuttavia il nostro pareva convinto: la sostenibilità futura della nascente moneta unica europea era da ritenersi un fatto ovvio, fuori discussione. Era il 1999, data di nascita dell’euro, e Padoan guarda caso teneva il corso di Economia dell’Unione europea. Una volta gli chiesi cosa pensasse delle tesi di quegli economisti, tra cui Augusto Graziani, che esprimevano dubbi sulla tenuta dell’eurozona; domandai, in particolare, quale fosse la sua valutazione di quegli studi che già all’epoca criticavano l’idea che gli squilibri tra i paesi membri dell’Unione potessero essere risolti a colpi di austerità fiscale e ribassi salariali. A quella domanda Padoan non rispose: si limitò a scrollare le spalle e a sorridere, con un po’ di sufficienza. All’epoca in effetti l’atteggiamento di Padoan era piuttosto diffuso. L’euro veniva considerato un fatto definitivo, discutere di una sua possibile implosione era pura eresia. Ben pochi, inoltre, si azzardavano a dubitare delle virtù taumaturgiche dell’austerità. Da allora evidentemente molte cose sono cambiate. Sulla capacità delle politiche di austerity di rimettere in equilibrio la zona euro, in accademia lo scetticismo sembra ormai prevalente. Come segnalato anche dal “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times nel settembre scorso, esponenti delle più diverse scuole di pensiero concordano nel ritenere che le attuali politiche stiano in realtà pregiudicando la sopravvivenza dell’Unione. Persino il Fondo Monetario Internazionale critica la pretesa di riequilibrare l’eurozona puntando tutto su pesanti dosi di austerity a carico dei paesi debitori. Insomma, la dura realtà dei fatti costringe i più a rivedere i vecchi pregiudizi. Ma Padoan, che oggi si accinge a lasciare l’OCSE e ad assumere l’incarico di ministro dell’Economia, ha cambiato la sua opinione? Non direi. In un’intervista rilasciata poco tempo fa al Wall Street Journal, il nostro ha affermato che la crescente sfiducia verso l’austerity è solo “un problema di comunicazione” visto che a suo avviso “stiamo ottenendo risultati”. E ha aggiunto: “Il risanamento fiscale è efficace, il dolore è efficace”. Ci sono due modi per interpretare questa affermazione. Il primo è che Padoan stia cinicamente interpretando l’austerity come fattore di disciplinamento sociale. Dal punto di vista dei rapporti di forza tra le classi sociali ci sarebbe del vero in questa idea. Mettendola in questi termini, tuttavia, Padoan sottovaluterebbe il fatto che l’austerity sta anche contribuendo alla cancellazione di ogni residua istanza di coesione tra i popoli europei. Il secondo modo di interpretare Padoan è che egli ritenga tuttora che le attuali politiche aiuteranno il rilancio dell’economia. In questo caso avanzerei il sospetto che Padoan sia stato sedotto dai risultati di un suo ardimentoso studio recente, secondo il quale i paesi che passano da una situazione di indebitamento ad una di avanzo estero, e che immediatamente attivano politiche di austerity in grado di abbattere il rapporto tra debito e Pil, hanno maggiori probabilità di aumentare la crescita della produzione. Ora, anche volendo trascurare gli enormi limiti di significatività di questo studio, il problema è che esso entra in contraddizione con le evidenze oggi disponibili: non ultimo il fatto che l’austerity non sta affatto determinando una riduzione del rapporto tra debito e Pil [1]. In un caso o nell’altro, non deve meravigliare che Paul Krugman abbia tratto spunto dalla improvvida dichiarazione di Padoan per commentare che “certe volte gli economisti che occupano cariche pubbliche danno cattivi consigli; altre volte danno pessimi consigli; altre ancora lavorano all’OCSE”. E altre volte ancora, aggiungiamo noi, diventano ministri dell’Economia di un governo che anziché fare uscire il Paese dalla crisi rischia di affondarlo definitivamente. 


 [1] de Mello, L., P. C. Padoan and L. Rousová (2011), “The Growth Effects of Current Account Reversals: The Role of Macroeconomic Policies”, OECD Economics Department Working Papers, No. 871, OECD Publishing.

Una prima riflessione sul congresso della CGIL

 Tratto dall'intervento di Arianna Ussi in Direzione Nazionale del PRC


Proprio in questi giorni, si sono concluse le assemblee di base della CGIL e si stanno aprendo i congressi provinciali di categoria. Al di là delle percentuali ottenute dai singoli documenti congressuali, credo che occorra avviare una prima riflessione su alcuni elementi di fondo. Innanzitutto, sulla bassa partecipazione degli iscritti cui in alcuni casi, corrisponde una mancanza di dibattito o di consapevolezza del tipo di assemblea in corso. C’è, indubbiamente, un senso di disaffezione e di sfiducia da parte di molti lavoratori nei confronti del sindacato e della sua deriva burocratica. Laddove, però, si sviluppa un dibattito, emerge con forza una contrapposizione ed un divario tra le burocrazie sindacali, lontane dai bisogni concreti dei lavoratori, da una parte, ed i lavoratori in carne ed ossa, con le loro istanze e le loro rivendicazioni, dall’altra. In secondo luogo, credo non si possa tacere l’assenza di democrazia che ha caratterizzato questa fase congressuale, in cui è evidente il clima di “normalizzazione” interna che la segreteria Camusso vuole imporre, come testimoniano la vicenda di Landini e quella, gravissima, dell’aggressione a Cremaschi, a cui addirittura è stato impedito di parlare. In realtà, anche in molte assemblee ci sono stati tentativi di limitare il dibattito, impedendo in vario modo a coloro che portavono posizioni critiche di esprimersi liberamente. Dobbiamo, innanzitutto, contrastare in modo netto la pericolosa deriva neocorporativa della CGIL della segreteria Camusso che si candida, di fatto, a cogestire il potere e non essere più un sindacato di rivendicazioni, ma un freno al conflitto sociale. Pertanto, la nostra deve essere una posizione di contrasto agli accordi padronali, da quello del 28 giugno fino all’accordo del 10 gennaio, che stanno portando ad uno snaturamento del sindacato. In questo senso, la proposta di legge "Piano per il lavoro" portata avanti dal nostro Partito, che si pone l'obiettivo di dare risposta alla crisi economica e alla gravissima situazione occupazionale, può fornire degli elementi di discussione ed assumere un ruolo propositivo, nel dibattito tanto congressuale quando esterno. 

Mussolini, Craxi, Berlusconi e ora Renzi: un nuovo "uomo della provvidenza"

Tratto dall'intervento di Arianna Ussi alla Direzione Nazionale del PRC

La formazione del governo Renzi segna un ulteriore spostamento a destra del quadro politico-istituzionale del Paese, che porterà ad un’accelerazione del processo di svuotamento delle istituzioni democratiche, ad una precipitazione in senso presidenzialista, ad un attacco, ancora più feroce e sistematico ai lavoratori ed alle loro tutele. Le modalità che hanno portato alla defenestrazione di Letta ed alla formazione del nuovo governo, il ruolo del presidente Napolitano, la scelta stessa dei ministri voluti da Renzi, parlano chiaro. Una nuova ondata di privatizzazioni porterà alla svendita del paese ai capitali nostrani e stranieri di acqua, energia, sanità, trasporti, e del patrimonio immobiliare. La scuola e l’università saranno, ancora una volta, tra i primi settori di intervento del governo. Del resto, l’indirizzo politico che quest’ultimo vuole perseguire è già stato palesato dalla neo-ministra Giannini, coordinatrice politica di Scelta Civica, e dalla sua concezione classista di scuola ed università. Il mai accantonato progetto aziendalistico dell’ Aprea diverrà relatà. “Le scuole si scelgano i propri insegnanti!” significa che la chiamata diretta dei dirigenti scolastici, che in questi anni di mobilitazioni abbiamo fortemente combattuto, determinerà un sistema piramidale e clientelare di tipo feudale, fortemente gerarchizzato, specie se, se verranno aboliti gli scatti di anzianità e introdotte differenziazioni salariali in senso meritocratico. Nei luoghi di lavoro, assisteremo ad un’ulteriore stretta reazionaria che si tradurrà in un attacco sistematico e generalizzato a diritti e salari, sempre più contrapposti tra loro, secondo una logica ricattatoria che trova nel modello Pomigliano e nel più recente modello Electrolux due esempi pericolosamente paradigmatici, che le classi dominanti tenderanno ad estendere ed imporre in ogni settore produttivo. E, all’interno di un pesante clima di repressione e criminalizzazione del dissenso (basti pensare ai provvedimenti restrittivi nei confronti dei disoccupati, a Napoli, e degli attivisti del movimento per la casa, a Roma), i primi ad essere colpiti saranno proprio i comunisti, che già adesso pagano la loro coerenza e la loro determinazione a non piegarsi, ma ad esporsi sempre, nei luoghi di lavoro come nel sindacato e nelle istituzioni.

2.25.2014

In Venezuela è a rischio la democrazia

di Ignacio Ramonet da Il manifesto 


Nei mesi scorsi, in Vene­zuela, ci sono state quat­tro ele­zioni deci­sive: due pre­si­den­ziali, il voto per i gover­na­tori e infine le muni­ci­pali. Tutte vinte dal blocco della rivo­lu­zione boli­va­riana. Nes­sun risul­tato è stato impu­gnato dalle mis­sioni degli osser­va­tori inter­na­zio­nali. La vota­zione più recente ha avuto luogo appena due mesi fa… E si è con­clusa con una netta vit­to­ria –11,5% di dif­fe­renza – dei cha­vi­sti. Da quando Hugo Chá­vez ha assunto la pre­si­denza nel 1999, tutte le tor­nate elet­to­rali mostrano che, socio­lo­gi­ca­mente, l’appoggio alla rivo­lu­zione boli­va­riana è maggioritario. In Ame­rica latina, Chá­vez è stato il primo lea­der pro­gres­si­sta – dai tempi di Sal­va­dor Allende – che ha scelto la via demo­cra­tica per arri­vare al potere. Non si può capire il cha­vi­smo se non si con­si­dera il suo carat­tere pro­fon­da­mente democratico. La scom­messa di Chá­vez ieri, e di Nico­lás Maduro oggi, è il socia­li­smo demo­cra­tico. Una demo­cra­zia non solo elet­to­rale. Anche eco­no­mica, sociale, cul­tu­rale… In 15 anni il cha­vi­smo ha con­sen­tito a milioni di per­sone – che in quanto poveri non ave­vano carta d’identità – lo sta­tuto di cit­ta­dini e ha con­sen­tito loro di votare. Ha devo­luto oltre il 42% del bilan­cio dello Stato agli inve­sti­menti sociali. Ha tolto dalla povertà 5 milioni di per­sone. Ha ridotto la mor­ta­lità infan­tile. Ha sra­di­cato l’analfabetismo. Ha mol­ti­pli­cato per cin­que il numero di mae­stri nella scuola pub­blica (da 65.000 a 350.000). Ha creato 11 nuove uni­ver­sità. Ha con­cesso pen­sioni d’anzianità a tutti i lavo­ra­tori (incluso quelli del set­tore infor­male)… Que­sto spiega l’appoggio popo­lare che ha sem­pre avuto Chá­vez, e le recenti vit­to­rie elet­to­rali di Nico­lás Maduro. Per­ché allora le pro­te­ste? Non dimen­ti­chiamo che il Vene­zuela cha­vi­sta – che custo­di­sce le prin­ci­pali riserve di idro­car­buri del pia­neta – è stato (e sarà) sem­pre oggetto di ten­ta­tivi di desta­bi­liz­za­zione e di cam­pa­gne media­ti­che siste­ma­ti­ca­mente ostili. Nono­stante si sia unita sotto la lea­der­ship di Hen­ri­que Capri­les, l’opposizione ha perso quat­tro ele­zioni in suc­ces­sione. Di fronte a que­sto fal­li­mento, la sua fra­zione più di destra, legata agli Stati uniti e diretta dal gol­pi­sta Leo­poldo López, punta ora su un colpo di stato a lenta com­bu­stione. E applica le tec­ni­che del manuale di Gene Sharp. In una prima fase: creare lo scon­tento mediante l’accaparramento mas­sic­cio dei pro­dotti di prima neces­sità; far cre­dere nell’incom­pe­tenza del governo; fomen­tare mani­fe­sta­zioni di scon­tento; e inten­si­fi­care la per­se­cu­zione mediatica. Dal 12 feb­braio, gli oltran­zi­sti sono pas­sati alla seconda fare, pro­pria­mente insur­re­zio­nale: uti­liz­zare lo scon­tento di un gruppo sociale (una mino­ranza di stu­denti) per pro­vo­care pro­te­ste vio­lente, e arre­sti; orga­niz­zare mani­fe­sta­zioni di soli­da­rietà con i dete­nuti; intro­durre tra i mani­fe­stanti pisto­leri con il com­pito di pro­vo­care vit­time da ambe­due i lati (la peri­zia bali­stica ha sta­bi­lito che gli spari che hanno ucciso a Cara­cas, il 12 feb­braio, lo stu­dente Bas­sil Ale­jan­dro Daco­sta e il cha­vi­sta Juan Mon­toya pro­ve­ni­vano dalla stessa pistola, una Glock cali­bro 9 mm); incre­men­tare le pro­te­ste e il loro livello di vio­lenza; rad­dop­piare l’attacco media­tico, con l’appoggio delle reti sociali, con­tro la repres­sione del governo; farer in modo che le grandi isti­tu­zioni uma­ni­ta­rie con­dan­nino il governo per l’uso smi­su­rato della vio­lenza; otte­nere che i governi amici lan­cino avver­ti­menti alle auto­rità locali.… Siamo in que­sta tappa. E dun­que: è a rischio la demo­cra­zia in Vene­zuela? Sì, per­ché è minac­ciata, una volta di più, dal gol­pi­smo di sem­pre.

2.22.2014

Costruiamo la lista dell'altra Europa!

2.21.2014

Ucraina: è tutto pilotato?

di Fausto Biloslavo, da "Il giornale" del 20/02/2014


L’Ucraina è sull’orlo della guerra civile. Il tentativo guidato dalle falangi dell’opposizione extraparlamentare come Pravi Sektor (Ala destra) e Spilna Prava (Causa comune) di raggiungere martedì il parlamento di Kiev per picchettarlo è subito sfociato in scontro aperto con la polizia. I manifestanti hanno tirato fuori le pistole, che raramente mostravano in piazza Maidan ed i poliziotti hanno risposto al fuoco. Il risultato, per ora, è di 25 morti, compresi 9 agenti ed un giornalista filogovernativo oltre a centinaia di feriti. L’eco delle violenze nella capitale ha subito raggiunto l’ovest del paese anti russo dove i ribelli sono tornati ad occupare gli edifici pubblici in 4 città. A cominciare da Leopoli, la “capitale” dell’Ucraina occidentale. I filo Maidan, la piazza simbolo della rivolta a Kiev, hanno assaltato anche la sede dei servizi segreti ed una caserma delle truppe speciali del ministero dell’Interno. Alessandro Gardini, un italiano che lavora in Ucraina e si trova a Leopoli, conferma che i ribelli “hanno preso tutte le armi della fureria e si sono diretti con degli autobus verso Kiev”. Dall’est del paese, tradizionalmente filo russo, sono partiti gli anti Maidan, che in maniera dispregiativa vengono chiamati “titushki” per raggiungere la capitale. Già ieri i miliziani filo governativi avevano partecipato agli scontri sanguinosi di Kiev. Il presidente in carica Viktor Yanukovich ha mobilitato i Berkut (aquile) i corpi speciali della polizia e sigillato la capitale e l’accesso a piazza Maidan con posti di blocco e blindati sulla cintura esterna. L’esercito con molti generali dell’ovest è in stato di allerta, ma con i soldati confinati nelle caserme. Come si è arrivati a questo punto dopo tre mesi di proteste, all’inizio pacifiche, nel centro di Kiev? La deriva Ucraina è solo l’ultima battaglia della nuova guerra fredda fra Mosca e Washington, che nelle settimane precedenti si è combattuta in maniera segreta e con colpi ad effetto. Il risultato è il sangue che sta scorrendo nella capitale, mentre gli scontri potrebbero espandersi a macchia d’olio spaccando in due il paese. Per capire i tasselli della “guerra segreta” bisogna chiedersi, come fa anche il settimanale Panorama in edicola, “cosa ci fa Open dialog, la stessa Ong del caso Shalabayeva che ha messo in difficoltà il governo italiano lo scorso anno, in mezzo ai rivoluzionari di piazza Maidan?” . Nel palazzo dei sindacati, in queste ore in fiamme, che era stato occupato dai miliziani ultra nazionalisti del partito Svoboda (Libertà), Open dialog aveva addirittura un manifesto, poi fatto sparire. Sul sito dell’organizzazione non governativa con sede a Varsavia “si reclutano “volontari per Kiev in appoggio alla protesta” con esperienze come fotografi, giornalisti, ma pure “nel pronto soccorso”. Open dialog, che fa parte della costellazione di associazioni in difesa dei diritti umani sponsorizzata dal miliardario George Soros, non è l’unica Ong schierata con i ribelli a Maidan. Per l’occasione sono ricomparsi anche i veterani di Otpor fondata con soldi americani, che nel 2001 a Belgrado ha giocato un ruolo di primo piano nell’assalto al parlamento e la caduta dello zar serbo Slobodan Milosevic. A Maidan negli ultimi giorni si è presentato anche l’intellettuale francese Bernard Henry Lévi facendosi rigorosamente fotografare in mezzo ad innocenti babucke, le casalinghe ucraine, come se la protesta fosse solo innocente e pacifica. Lo stesso Lévi che ha fomentato i ribelli libici contro Gheddafi ed inneggiato, almeno all’inizio, alle primavere arabe. Non a caso i manifestanti anti Maidan innalzavano dei cartelli con scritto “Yugoslavia, Lybia, Tunisia….. Ukraine is next (la prossima)?”. L’Fsb, il servizio segreto russo, ha assestato un colpo sotto la cintura intercettando e postando su You tube l’imbarazzante telefonata fra Victoria Nuland, assistente del segretario di Stato per gli Affari europei e l’ambasciatore americano a Kiev, Geoffrey Pyatt. Alla cornetta la diplomatica non dice solo la famosa frase “la Ue si fotta”, ma detta disposizioni sul futuro governo dell’opposizione. 

Come se gli oppositori fossero pedine da manovrare in un Grande gioco anti russo boccia l’ipotesi di Vitali Klitschko nell’esecutivo. L’ex pugile, che ha vissuto in Germania ed il suo partito, Udar, è sostenuto ufficialmente dalla Cdu, il movimento politico del cancelliere tedesco Angela Merkel. Nuland prima di mandare la Ue a farsi fottere racconta di come ha convinto l’Onu ad assumere un ruolo nella crisi ucraina considerando il segretario generale Ban Ki moon più utile ai piani americani rispetto ai mollaccioni di Bruxelles. In queste ore, però, è la Ue a minacciare sanzioni contro Yanukovich ed i suoi uomini. Il ruolo non solo diplomatico dell’ambasciata americana a Kiev si era già notato con la pubblicazione sul proprio sito della foto di Dmytro Bulatov, noto militante di Maidan, con il volto tumefatto, per rilanciare lo sdegno. Ancora oggi non sono stati chiariti tutti gli aspetti del suo rapimento e delle torture che ha subito. Non solo: in dicembre l’ambasciatore Pyatt aveva convocato Rinat Akhmetov, il più potente oligarca ucraino facendogli balenare l’ipotesi che i suoi importanti asset finanziari in giro per il mondo potevano finire nel mirino degli Usa. Dopo l’incontro Akmteov ha preso le distanze dal presidente Yanukovich, che aveva sempre appoggiato, invitandolo al dialogo con i manifestanti di Maidan. Bazzecole se fosse comprovata la veridicità di un filmato girato dai servizi ucraini o russi all’aeroporto di Kiev ed andato in onda sul primo canale della Tv di Mosca. Le immagini mostrano dei sacchi color amaranto scaricati da un jet bianco senza insegne, che grazie all’immunità diplomatica non passano la dogana. Una macchina blindata carica i sacchi e si nota la targa di un’altra vettura del corteo, 002, che corrisponde all’ambasciata Usa a Kiev. Nel servizio sulla tv russa si sostiene che i sacchi contenevano 17 milioni di dollari per alimentare la rivolta di Maidan. In dicembre gli ambasciatori a Kiev sono stati convocati al ministero degli Esteri per una nota informativa. Alla riunione un funzionario dell’Svb, il locale controspionaggio, ha annunciato l’arresto “di un cittadino americano”, che sotto le tende dei paramilitari di Maidan faceva vedere i video degli scontri del Cairo durante la primavera araba per mostrare come reagire alla polizia. La prima a chiedere sanzioni Ue contro il regime di Kiev è stata Varsavia sponsor dei ribelli. Nell’establishment americano è molto forte la lobby polacca a cominciare da Zbigniew Brzezinski, che in tempi non sospetti scriveva: “Gli Stati che meritano il più forte sostegno americano sono l’Azerbaijan, l’Uzbekistan e l’Ucraina, in quanto pilastri geopolitici. Anzi è l’Ucraina lo stato essenziale, che influirà sull’evoluzione futura della Russia”. Negli Stati Uniti esiste dal 1894 l’Associazione nazionale ucraina (Una), che durante la guerra fredda propagandava l’indipendenza del paese. Compreso il Canada conta oltre 50mila membri e gode di un patrimonio di 170 milioni di dollari di pensioni e assicurazioni. Dagli ucraini a stelle e strisce stanno arrivando soldi e aiuti per la rivolta. I russi non sono da meno nella guerra segreta a Kiev e parlano senza peli sulla lingua. Secondo il ministro degli Esteri Sergej Lavrov per l'Ucraina sull'orlo della guerra civile «la responsabilità è dell’Occidente che ha aizzato e incoraggiato i ribelli». Mosca ha parlato con esagerazione “di tentato colpo di stato”, ma a Washignton sono convinti che la nuova guerra fredda possa diventare calda. Lo scrive Stephen Blank, esperto di Russia, all’American foreign policy council sostenendo che il ponte fatto costruire su un territorio conteso attorno allo stretto di Kerch sul mare di Azov, al confine russo-ucraino, “sia l’eccellente autostrada per un’invasione”.

2.15.2014

Una buona notizia dall'Università di Siena

Apprendiamo con piacere che l'Università degli Studi di Siena, nella seduta del proprio Consiglio di Amministrazione del 14 febbraio scorso, ha accettato la riapertura dei termini temporali per la comunicazione da parte degli studenti del valore della propria dichiarazione ISEE ai fini del calcolo della seconda rata della tasse universitarie; questione sulla quale si era espresso anche il nostro Partito nei giorni scorsi. Ci complimentiamo con Link Siena e con gli studenti che hanno portato egregiamente avanti questa più che giusta battaglia! 

Lia Valentini segretaria PRC Circolo di Siena 
Francesco Andreini segretario PRC Federazione Siena

"La Camusso si demetta"

Pubblichiamo il comunicato dell’esecutivo nazionale de “Il sindacato è un’altra cosa” 

Condanniamo la gravissima aggressione subita dal compagno Giorgio Cremaschi e da altre compagne e compagni aderenti al documento congressuale “Il sindacato è un’altra cosa” a Milano, nel corso di un’assemblea CGIL con la presenza di Susanna Camusso. L’assemblea era già di per sé un fatto inusuale, in quanto erano convocate solo categorie con i gruppi dirigenti favorevoli all’accordo del 10 gennaio ed esclusa la FIOM, che aveva protestato pubblicamente. Un gruppo di compagne e compagni aderenti al documento alternativo, tra cui delegati delle categorie formalmente presenti in assemblea e Giorgio Cremaschi, primo firmatario del documento, si è quindi presentato all’incontro. Lo scopo era distribuire un volantino contro l’intesa sulla rappresentanza, che ricordava la singolare coincidenza tra l’assemblea per il si al testo unico sulla rappresentanza ed il 14 febbraio 1984, giorno del Decreto Craxi per il taglio alla Scala Mobile dei salari. Inoltre si volevano esercitare i diritti della minoranza con un intervento nel l’assemblea. I compagni indossavano anche cartelli con il no all’accordo. Il primo problema con il servizio d’ordine è sorto in quanto si voleva impedire ai compagni, che ne avevano pieno diritto, di accedere all’assemblea. Già lì il servizio d’ordine ha esercitato pesanti pressioni. Alla fine ai delegati è stato concesso di entrare purché lasciassero i cartelli. Solo Cremaschi ha potuto conservare il cartello che diceva no all’accordo. Una volta in sala i nostri compagni hanno seguito in assoluto silenzio la relazione e all’apertura del dibattito Nico Vox,delegato della funzione pubblica, ha chiesto di poter intervenire come unico intervento di dissenso tra i tanti già programmati. Subito tutto il gruppo di delegati dissenzienti è stato circondato dal servizio d’ordine che impediva a Nico Vox di avvicinarsi alla presidenza. Susanna Camusso si avvicinava al gruppo e anche a lei veniva rivolta la richiesta che Nico potesse parlare, senza ricevere risposta. Si rispondeva invece dal palco dicendo che si poteva parlare in altre sedi. Alle proteste del gruppo di delegati seguiva una violentissima aggressione da parte del servizio d’ordine. I compagni venivano brutalmente spintonati, insultati minacciati. Giorgio Cremaschi veniva gettato nelle scale e solo per fortuna non ha riportato danni mentre Nico Vox doveva ricorrere all’ospedale. Quello avvenuto è un atto senza precedenti nella vita della CGIL, dove i più aspri dissensi non sono mai stati affrontati con la violenza fisica e le minacce personali. Il senso profondamente antidemocratico dell’accordo sulla rappresentanza inquina già tutta la vita interna della CGIL, ma è evidente che qui si è passato il segno. L’esecutivo nazionale de “Il sindacato è un’altra cosa” esprime piena condivisione e solidarietà verso i compagni Giorgio Cremaschi, Nico Vox e verso tutti gli aggrediti. I compagni colpiti verranno tutelati in tutte le sedi, ma è chiaro che la responsabilità politica della segretaria generale della CGIL è enorme. Al direttivo della CGIL convocato per il 26 febbraio verrà presentata una mozione di sfiducia verso Susanna Camusso che si è rivelata incapace di tutelare i diritti e le libertà degli iscritti alla CGIL e per questo deve dimettersi.

2.12.2014

Ucraina: i comunisti istituiscono le milizie popolari per combattere i neonazisti


I comunisti di Zaporozhe hanno creato una “milizia”, annuncia il Primo Segretario del Partito Comunista di Ucraina Vitalij Misha. Secondo lui, l’iniziativa proviene dai cittadini e da organismi pubblici, allarmati dalla minaccia dei nazisti. Il compito della “milizia del popolo” è mantenere l’ordine pubblico, evitare la destabilizzazione dell’oblast di Zaporozhe e bloccare tutti gli attacchi dai gruppi fascisti. La consigliera regionale comunista Elena Semenenko ha chiesto il divieto del partito “Svoboda” nel territorio della regione di Zaporozhe. L’8 febbraio, si svolgerà un grande corteo antifascista a Kiev dei volontari della “milizia”, composta da: Komsomol di Zaporozhe VSZHT “Gioventù futura d’Ucraina” Guardia Slava Unione dei cittadini ucraini Unione degli agenti di polizia sovietici Organizzazione dei veterani d’Ucraina Funzionari pubblici Associazione dei veterani di Chernobyl I principali obiettivi della milizia è supervisionare il rispetto della legge e dell’ordine nella città, creare squadre d’intervento anti-tumulti, impedire all’opposizione di occupare edifici amministrativi, lotta antivandalica, opposizione a qualsiasi forma di restauro del fascismo e riabilitazione dei crimini commessi dai terroristi dell’UPA. A Lugansk, i comunisti creano la “milizia” per respingere i ribelli I comunisti formano una “milizia” di 200 persone pronta a reagire entro un’ora respingendo i neo-nazisti diretti a Lugansk, afferma il Primo Segretario del Comitato del Partito Comunista di Ucraina, Maksim Chalenko. “Lo scopo di questo gruppo è proteggere i civili e non gli edifici amministrativi. Nostro compito è impedire scontri e provocazioni.” Ha anche notato che la milizia è al centro della rete di organizzazioni primarie del comitato regionale del Partito comunista dell’oblast di Lugansk, che copre l’intera regione. “In ogni strada vi sono comunisti, osservano la situazione nelle zone residenziali e avvisandoci della situazione costantemente, la sede decide come reagire“, ha aggiunto il comunista. 
Traduzione di Alessandro Lattanzio

2.11.2014

Referendum immigrazione in Svizzera: vince la Lega per la libera circolazione dei capitali e delle merci ma blocca i lavoratori

Pubblichiamo il comunicato dei compagni del Partito comunista – Sezione ticinese del Partito svizzero del Lavoro sull’esito delle consultazioni promosse dall’Udc svizzera sul tema immigrazione. 

L’iniziativa “contro l’immigrazione di massa” è passata in votazione popolare. Il risultato per i diritti sociali dei lavoratori e per il diritto umanitario è negativo. L’iniziativa UDC mette a rischio non solo numerosi posti di lavoro, ma favorisce le delocalizzazioni e danneggia conseguentemente l’economia nazionale (che esporta nell’UE per il 60%), in quanto il nostro Paese non è una realtà autarchica che può fare facilmente a meno delle relazioni con l’Europa. Berna dovrà comunicare a Bruxelles con ogni probabilità la fine della via bilaterale per come l’abbiamo finora conosciuta, la qual cosa potrà comportare anche degli indennizzi per la rottura unilaterale degli accordi. Il Partito Comunista auspica certamente una rinegoziazione di tali accordi, oggi basati solo sulla libera circolazione dei capitali, ma non siamo neppure ciechi circa i rapporti di forza oggi fortemente compromessi per il nostro Paese. La Svizzera si pone poi contro il diritto internazionale se l’iniziativa UDC venisse applicata alla lettera e a soffrire sarà non solo la povera gente costretta a fuggire da paesi in guerra (spesso fomentata dai governi occidentali), ma anche gli stessi cittadini svizzeri che vivono, lavorano e studiano all’interno di contesti in cui gli accordi economici e sociali tra Svizzera e UE sono decisivi. Il Consiglio federale si deve assumere la piena e totale responsabilità politica di questa situazione. La subalternità del governo nei confronti dell’imperialismo europeo e nel contempo la sua totale incapacità di affrontare i problemi sociali nelle zone di frontiera, così come spesso indicato dalla sinistra e dai sindacati, è alla base di questo disastroso successo dell’estrema destra che frantuma in modo grave l’unità dei lavoratori e favorisce pericolose politiche scioviniste. 

Partito comunista – sezione ticinese del Partito svizzero del lavoro 

2.10.2014

Solidarietà ai 12 studenti denunciati a Siena per le mobilitazioni contro la Legge Gelmini

Il 30 novembre 2010, nell'ambito di una grande manifestazione studentesca contro il DDL Gelmini quel giorno in discussione in Parlamento, sono stati denunciati a Siena, da agenti della Digos, con l'accusa di interruzione di pubblico servizio, dodici studenti rei di essere stati i presunti capi organizzativi di un corteo che ha bloccato per quindici minuti un autobus vuoto nei pressi di piazza Gramsci. Noi crediamo che un tale provvedimento sia del tutto sproporzionato e fuori luogo dal momento che si trattava di un corteo completamente pacifico, inserito in un contesto nazionale di mobilitazione di massa contro la più disastrosa riforma della Pubblica Istruzione che l'Italia democratica abbia mai conosciuto. Ancora una volta va riaffermato il concetto che la manifestazione del pensiero è un diritto sancito dalla Costituzione. In occasione dell'udienza che si terrà il prossimo 12 febbraio intendiamo ribadire la nostra piena solidarietà ai denunciati e la nostra totale disponibilità politica nei loro confronti.

La necessità di difendere la memoria antifascista dal mito delle foibe

 di Carmine Tomeo

Quando si parla e soprattutto quando si partecipa alle commemorazioni della Giornata del Ricordo, il 10 febbraio di ogni anno, si dovrebbe innanzitutto (o quanto meno) tenere presente che cosa si sta celebrando. Ovviamente la propaganda patriottarda e neo-irredentista racconta la storia dell’esodo degli italiani dell’Istria e della Dalmazia dalle persecuzioni titine. Ma intanto occorre tenere a mente cosa rappresenta storicamente il 10 febbraio. La Giornata del Ricordo nasce in sostanziale contrapposizione alla giornata della memoria del 27 gennaio. Non è casuale la vicinanza delle due ricorrenze e abbastanza evidente dovrebbe apparire la contrapposizione. Il 27 gennaio è il giorno in cui l’Armata rossa entra ad Auschwitz, libera il campo di sterminio e mette davanti agli occhi del mondo la barbarie nazista; il 10 febbraio, per contro, è il giorno del 1947 durante il quale venne firmato il trattato di pace di Parigi, a seguito del quale l’Italia sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale nel quale era stata precipitata dal fascismo, dovette cedere alla Jugoslavia vincitrice del conflitto gran parte dei territori dell’Istria che erano stati conquistati dall’Italia nella sua guerra imperialista: la Prima Guerra Mondiale. È chiaro, quindi, quali riferimenti storici stiano alla base delle celebrazioni della giornata del ricordo: quelli dell’imperialismo italiano, sconfitto con il fascismo nella Seconda Guerra Mondiale. È a questa sconfitta (dell’imperialismo e del fascismo) che i “foibologi” non vogliono rassegnarsi. Non è un caso che fu Roberto Menia il primo firmatario nel 2003 della proposta di Legge per l’istituzione della giornata del ricordo, lo stesso che nel 1992, quand’era segretario della federazione del Msi-Dn di Trieste, insieme a Gianfranco Fini (allora segretario nazionale dello stesso partito), lanciava bottiglie in mare al largo di Istria contente il seguente messaggio: «Istria, Fiume, Dalmazia: Italia!… Un ingiusto confine separa l’Italia dall’Istria, da Fiume, dalla Dalmazia, terre romane, venete, italiche. La Yugoslavia [Jugoslavia con Y nel testo originale] muore dilaniata dalla guerra: gli ingiusti e vergognosi trattati di pace del 1947 e di Osimo del 1975 oggi non valgono piu’.. E’ anche il nostro giuramento: ”Istria, Fiume, Dalmazia: ritorneremo!”». Non è un caso che ancora Gianfranco Fini, mentre ricopriva la carica di presidente della Camera, nel corso della cerimonia di inaugurazione del monumento a Norma Cossetto il 21 febbraio 2009 affermò che «Nostra intenzione è riportare in terra d’Istria non il tricolore di Stato, ma il dialetto, la memoria patria, la cultura, senza spirito aggressivo (…) ricordando però che l’Istria è terra veneta, romana, dunque italiana.» [1] Prima ancora di parlare di italiani infoibati ed esiliati in quanto tali dal territorio jugoslavo, occorre quindi tenere bene a mente da dove nasce la Giornata del Ricordo, cioè da un mai sopito spirito nazionalista e revanscista. Basta a tal proposito farsi un giro sul sito dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Anvgd), che si definisce come «la maggiore rappresentante sul territorio nazionale degli italiani fuggiti dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia». [2] L’Anvgd, gonfiando come al solito i numeri sul cosiddetto esodo degli italiani e sulla loro morte nelle foibe, considera importante il giorno del ricordo perché «riporta sotto i riflettori quei dolorosi eventi ma nel contempo anche i valori di identità nazionale [e] le parole foibe ed esodo istriano, fiumano e dalmata vengono ravvivate nel loro significato più drammaticamente profondo ma nel contempo in una fiduciosa prospettiva per il futuro». C’è da chiedersi (retoricamente) se la «fiduciosa prospettiva per il futuro» a cui fa riferimento l’Anvgd faccia riferimento all’articolo 2 del proprio statuto con il quale l’associazione si propone di «compiere ogni legittima azione che possa agevolare il ritorno delle Terre Italiane della Venezia Giulia, del Carnaro e della Dalmazia in seno alla Madrepatria». [3] Se non è irredentismo questo… E allora è necessario che la Giornata del Ricordo venga sottratta al mito e riconsegnata alla storia. E la storia, ripulita dalle menzogne, dalle falsificazioni e dalle narrazioni ad uso e consumo del neoirredentismo e del neofascismo, dimostra che la minaccia e la teorizzazione dell’infoibamento viene dal nazionalismo italiano in quelle terre fin dall’inizio del secolo scorso [4]. Soprattutto, però, la storia, che non può essere decontestualizzata, dovrebbe ricordare che il fascismo teorizzava il genocidio del popolo slavo, considerato «razza inferiore e barbara come la slava» contro il quale, affermava Mussolini già nel 1920, «non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani». E la storia, ripulita dalla falsificazioni neofasciste, dimostra quali politiche di italianizzazione forzata dovettero subire le popolazioni slave soprattutto con l’avvento del fascismo, quali persecuzioni; quali politiche di deportazioni e fucilazioni di massa, distruzioni di interi villaggi in conseguenza dell’occupazione delle terre istriane e dalmate da parte del nazifascismo. Riportare le foibe fuori dal mito significa affermare che all’indomani dell’8 settembre 1943 e poi dopo la fine della guerra, vi furono certamente, come afferma Claudia Cernigoi «esecuzioni sommarie, vendette personali, e che i corpi degli uccisi furono anche gettati nelle “foibe”. Il fatto è però che i morti non furono migliaia, come la propaganda ha sempre sostenuto, ma tra i trecento ed i quattrocento» [5]; che i cosiddetti infoibati avevano solitamente curriculum di squadristi, aguzzini, torturatori, spie, collaborazioni nazifascisti. [6] Uccisi, in guerra, in una lotta contro il nazifascismo e non contro gli italiani in quanto tali; che non vi fu, quindi, alcun genocidio con migliaia di morti e che non vi fu alcun odio anti-italiano, ma semmai vi fu lotta antifascista nel corso (forse è bene ricordarlo) della Seconda guerra mondiale, il conflitto armato più barbaro che la storia ricordi. Vi fu, cioè, una lotta di Resistenza contro il nazifascismo e la sua barbarie. Quando questa operazione di smitizzazione viene portata avanti, si dimostra chiaramente che nessuna memoria condivisa è possibile, perché significherebbe infangare la memoria storica antifascista con le falsificazioni e con le teorizzazioni fasciste. Mentre oggi, ancora oggi, a quasi 70 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dalla sconfitta del nazifascismo, abbiamo bisogno di affermare chiaramente i valori della Resistenza e dell’antifascismo. Quei valori oggi contenuti nella nostra Costituzione. Non è un caso che proprio la Costituzione, ultimo baluardo di democrazia istituzionale in Italia, sia messa in discussione con la stessa meschinità, con gli stessi metodi subdoli con i quali viene messa in discussione la memoria antifascista con il mito delle foibe. Se venisse a mancare di senso la memoria storica antifascista, verrebbero a mancare di senso immediatamente anche i principi costituzionali antifascisti, di democrazia, di pari dignità sociale, di pieno sviluppo della persona umana, di partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese. Karl Polanyi, antropologo hungerese, affermò che «La soluzione fascista dell’impasse raggiunta dal capitalismo liberale può essere descritta come una riforma dell’economia di mercato raggiunta al prezzo dell’estirpazione di tutte le istituzioni democratiche tanto nel campo dell’industria che in quello della politica. Il sistema economico che era in via di disfacimento veniva così rivitalizzato mentre i popoli stessi venivano sottoposti ad una rieducazione destinata a snaturare l’individuo e a renderlo incapace di funzionare come unità responsabile del corpo politico.» [7] E’ chiaro quindi che la soluzione fascista è un’ipotesi sempre possibile. Non è un caso che oggi, di fronte ad una memoria storica antifascista compromessa, esattamente in un periodo di «impasse raggiunta dal capitalismo liberale», si tentino riforme in senso antidemocratico, sia in economia che in politica. Esempi molto chiari ne sono la proposta (speriamo senza efficacia) di una legge elettorale (quella proposta da Renzi ed il pregiudicato Berlusconi) in contrasto con la Costituzione [8] e che limita la partecipazione effettiva dei cittadini alla vita politica e rimuove il conflitto di classe per via legislativa. Una legge elettorale che tenta di eliminare la possibilità che il conflitto sociale venga rappresentato in Parlamento come era nelle intenzioni dei costituenti. E non è un caso che Marchionne possa bellamente minacciare di lasciare l’Italia all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale che impone alla Fiat il rispetto del diritto sindacale previsto dalla Costituzione [9]. Non è nemmeno un caso che una banca d’affari come JP Morgan possa permettersi di “suggerire” di rimuovere i principi antifascisti contenuti nella nostra Costituzione [10] per affermare liberamente politiche economiche di austerità che da anni stanno compiendo un vero e proprio massacro sociale. Ecco quindi l’attualità dell’antifascismo ed al tempo stesso la necessità di non cedere un millimetro di fronte alle spinte bipartisan che vorrebbero imporre un’impossibile memoria condivisa. Nel Giorno del Ricordo, non cedere al revisionismo neofascista e neoirredentista e riportare le foibe fuori dal mito significa appunto questo: difendere la memoria antifascista. Necessaria oggi anche per difenderci dalle politiche antisociali in atto e per lottare contro di esse.

2.05.2014

L’attacco agli enti locali è sistemico, il braccio operativo è Cassa Depositi e Prestiti

di Marco Bersani 


  1. Uno dei nodi cruciali della guerra alla società, dichiarata dalle lobby finanziarie con la trappola della crisi del debito pubblico, vedrà nei prossimi mesi al centro gli enti locali, i loro beni e servizi, il loro ruolo. Infatti, poiché l’enorme massa di ricchezza privata prodotta dalle speculazioni finanziarie, che ha portato alla crisi globale di questi anni, ha stringente necessità di trovare nuovi asset sui quali investire, è intorno ai beni degli enti locali che le mire sono ogni giorno più che manifeste. 
  2. Già nel rapporto “Guadagni, concorrenza e crescita”, presentato da Deutsche Bank nel dicembre 2011 alla Commissione Europea, si scriveva a proposito del nostro Paese : “ (..) I Comuni offrono il maggior potenziale di privatizzazione. In una relazione presentata alla fine di settembre 2011 dal Ministero dell’Economia e delle Finanze si stima che le rimanenti imprese a capitale pubblico abbiano un valore complessivo di 80 miliardi di euro (pari a circa il 5,2% del PIL). Inoltre, il piano di concessioni potrebbe generare circa 70 miliardi di entrate. E questa operazione potrebbe rafforzare la concorrenza. (..) Particolare attenzione deve essere prestata agli edifici pubblici. La Cassa Depositi e Prestiti dice che il loro valore totale corrente arriva a 421 miliardi e che una parte corrispondente a 42 miliardi non è attualmente in uso. Per questa ragione potrebbe probabilmente essere messa in vendita con relativamente poco sforzo o spesa. Dal momento che il settore immobiliare appartiene in gran parte ai Comuni, il governo dovrebbe impostare un processo ben strutturato in anticipo. (..) Quindi, secondo le informazioni ufficiali, il patrimonio pubblico potrebbe raggiungere in valore complessivo di 571 miliardi, vicino al 37% del PIL. Naturalmente, il potenziale può anche essere ampliato.” 
  3. La spoliazione degli enti locali è naturalmente avviata da almeno un quindicennio e vi hanno concorso diversi fattori. Il primo è stato il Patto di Stabilità e Crescita interno, ovvero le diverse misure, annualmente stabilite, per far concorrere gli enti locali agli obiettivi di stabilità finanziaria stabiliti dallo Stato in accordo con l’Unione Europea. Quel patto ha visto in una prima fase una durissima contrazione delle possibilità di assunzione del personale da parte degli enti locali, riducendone drasticamente la qualità del servizio e contribuendo in questo modo a costruire una campagna ideologica sull’inefficienza del “pubblico”; in un secondo momento è finita sotto attacco la possibilità e la capacità di investimento da parte degli enti locali che, con l’alibi di non doversi indebitare, sono stati costretti e ridurre al lumicino le opere da realizzare; infine, nell’attualità, perfino la capacità di spesa corrente trova draconiane limitazioni, mettendo definitivamente a rischio il funzionamento stesso degli enti locali. Classificati da ora in avanti in “virtuosi” e “non virtuosi”, gli enti locali saranno costretti, per entrare nella prima categoria, ad aumentare le tasse locali e le tariffe, a ridurre ulteriormente l’occupazione, a dismettere il patrimonio pubblico e a privatizzare i servizi pubblici locali. 
  4. Il secondo fattore è dovuto alla spending review, ovvero i drastici tagli lineari che, anziché riorganizzare la spesa eliminando gli sprechi e le corruttele, comportano un’automatica riduzione di tutti i servizi erogabili senza alcuna scala di priorità e senza la benché minima programmazione. Il terzo fattore è stata l’approvazione del Fiscal Compact, ovvero l’obiettivo sottoscritto in sede europea di portare entro venti anni al 60% il rapporto debito/pil che oggi è pari al 133% . Ciò significa annualmente una riduzione secca di tale rapporto del 3,3% , con un costo di oltre 50 miliardi/anno. Se a questo si aggiunge l’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione –di fatto, la costituzionalizzazione della dottrina liberista- il quadro è decisamente chiaro. 
  5. La tesi qui sostenuta è che l’attacco agli enti locali sia sistemico e abbia come ultimo obiettivo la scomparsa della funzione pubblica e sociale dell’ente locale, come sin qui lo abbiamo conosciuto, trasformandone il ruolo da erogatore di servizi per la collettività a facilitatore dell’espansione della sfera di influenza dei capitali finanziari e da garante dell’interesse collettivo a sentinella del controllo sociale delle comunità. Una trasformazione autoritaria necessaria per permettere, attraverso la drastica riduzione della democrazia di prossimità, la totale spoliazione dei beni comuni delle comunità locali. Per queste ragioni, l’ente locale è destinato a diventare uno dei luoghi fondamentali dello scontro sociale nei prossimi mesi. 
  6. L’insieme di draconiane misure nei confronti degli enti locali ha un unico scopo: metterli con le spalle al muro dal punto di vista economico per persuaderli/obbligarli ad un gigantesco percorso di espropriazione e di privatizzazione, consegnandone beni e patrimonio alle lobby bancarie e finanziarie Un processo che avviene attraverso diversi ma convergenti percorsi. Cosa posseggono infatti gli enti locali? Territorio, patrimonio e servizi, ed è su questi che si sta giocando, e sempre più lo si farà nel prossimo periodo, la guerra contro la società. 
  7. Il territorio è da tempo strumento di valorizzazione finanziaria, in due diverse modalità di scala. La prima attraverso la continua cementificazione del suolo, favorita da una norma, da anni reiterata in Parlamento, che consente di utilizzare gli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente dei Comuni : in pratica, anche solo per garantire l’ordinario funzionamento dell’ente locale, gli amministratori sono invogliati a consegnare porzioni di territorio alla speculazione immobiliare, arrivando al paradosso che, mentre fino a qualche anno fa erano i costruttori a fare la questua negli uffici comunali per ottenere cambi di destinazione d’uso di terreni, oggi sono i sindaci a inseguire i costruttori per poter firmare convenzioni che consentano di mettere in cassa i relativi oneri. La seconda è quella dei grandi eventi e delle grandi opere : che siano basi militari (Muos di Catania, Dal Molin di Vicenza), che siano mega-progetti infrastrutturali (Tav, Ponte sullo stretto, 35 nuovi progetti autostradali) o “eventi” (Giubileo di Roma, Expo di Milano), l’unico obiettivo è la consegna del territorio alla valorizzazione finanziaria e alla speculazione immobiliare. 
  8. Il patrimonio pubblico in mano agli enti locali ha, come abbiamo visto, dimensioni enormi (421 miliardi). La sua svendita, cominciata da tempo, è oggi considerata da Governo e Sindaci un vero e proprio piano strategico e, attraverso l’alibi della crisi del debito pubblico, sono ormai in adozione in tutti i Comuni piani di dismissione all’unico scopo di fare cassa. Anche i servizi pubblici locali sono da molto tempo sotto attacco e a rischio privatizzazione. Su questo terreno, come anche Deutsche Bank nel suo rapporto citato all’inizio ha dovuto riconoscere, la straordinaria vittoria referendaria del movimento per l’acqua nel giugno 2011 ha complicato molto i piani, senza tuttavia far desistere le grandi lobby finanziarie. 
  9. Cassa Depositi e Prestiti, ovvero l’ente (ora SpA, con all’interno le fondazioni bancarie) che raccoglie il risparmio postale (240 miliardi) di quasi 24 milioni di persone, è il vero e proprio braccio operativo di questo processo. Cassa Depositi e Prestiti interviene infatti sulla valorizzazione finanziaria del territorio, finanziando direttamente, o attraverso F2i (Fondo per le infrastrutture, partecipato al 16% da Cdp), molte delle grandi opere, in particolare autostradali, in corso o in progetto nel nostro Paese; così come, attraverso FIV (Fondo Investimenti per la Valorizzazioni) di CDPI sgr si propone agli enti locali come partner ideale per la valorizzazione degli immobili da immettere sul mercato, fissandone un prezzo ed impegnandosi ad acquisirli, qualora dopo bando l’ente locale non riesca a venderli (FIV comparto Plus) o acquisendoli direttamente (FIV comparto Extra); altrettanto determinante è il ruolo assunto da Cdp nei processi di privatizzazione dei servizi pubblici locali, essendo da tempo impegnata attraverso F2i (Fondo per le infrastrutture) da una parte e FSI (Fondo strategico Italiano, interamente controllato da Cdp), in operazioni di ingresso nel capitale sociale delle aziende di gestione del servizio idrico e dei servizi pubblici locali per favorirne fusioni societarie e il rilancio in Borsa. 
  10. Se il luogo dello scontro sociale del prossimo periodo sarà dunque l’ente locale, il nodo intorno al quale si dipanerà sarà quello del ruolo di Cassa Depositi e Prestiti. Se sotto attacco è la stessa funzione sociale degli enti locali come luoghi di prossimità degli abitanti di un territorio, altrettanto sotto scacco è l’utilizzo della ricchezza sociale prodotta nel Paese, in particolare quella del risparmio postale dei cittadini, che invece di essere utilizzata per gli investimenti volti al soddisfacimento dei bisogni sociali e ambientali delle comunità locali, viene interamente indirizzata come leva per l’espansione dei mercati finanziari e finalizzata all’espropriazione dei beni comuni. Si comprende meglio, a questo punto, anche il senso profondo della progressiva riduzione degli spazi di democrazia, che vede nell’accentramento istituzionale da una parte e in una furbesca campagna contro la “casta” e relativa riduzione della rappresentanza dall’altra, il progressivo distanziamento dei luoghi della decisionalità collettiva dalla vita concreta delle persone. L’obiettivo è chiaro : se ciò che è in atto è un mastodontico processo di spoliazione delle comunità locali, diviene necessario rendere loro sempre più ardua qualsiasi forma di organizzazione e di protesta, trasformando in rassegnata solitudine quella che potrebbe altrimenti divenire lotta per la riappropriazione sociale. 
  11. Oggi sindaci e amministratori sono posti di fronte ad un bivio senza zone d’ombra : devono decidere se essere gli esecutori ultimi di un processo di privatizzazione che dalla Troika discende verso i governi e scivola giù fino agli enti locali o se riconoscersi come i primi rappresentanti degli abitanti di un determinato territorio e porsi in diretto contrasto con quei processi. Ma, indipendentemente dalla consapevolezza dei propri sindaci e amministratori, le donne e gli uomini di ogni comunità locale di questo Paese devono sapere che la lotta collettiva e generalizzata contro la trappola del debito, per una nuova finanza pubblica e sociale, per la riappropriazione sociale dei beni comuni, è interamente nelle loro mani. E che da essa dipende il destino della democrazia reale.

2.04.2014

Preoccupante situazione all'Univeristà di Siena

Da articoli di stampa e da informazioni ricevute da studenti presso l'Università di Siena, risulta che sarebbero in corso richieste di pagamento illegittime da parte della stessa Università. Tali sarebbero infatti le richieste nel caso gli studenti si trovassero a pagare quote non dovute, in base allo stesso regolamento che l'Università si è dato. Oltre a questi casi, ci sarebbero poi situazioni nelle quali i pagamenti "dovuti" potrebbero essere inferiori, se ci fosse stata una informazione migliore (è il caso per esempio degli studenti che non avrebbero presentato l'ISEE per "consuetudine", in quanto non dovuta negli anni accademici precedenti). Anche la proroga concessa riguarda infatti solo la scadenza di pagamento, e non la scadenza per la consegna dell'ISEE, necessaria per il corretto calcolo della tassa dovuta. Ci appare quanto meno poco "educativo", da parte di una Istituzione che riteniamo particolarmente importante per la nostra comunità, che si proceda ad una esazione a volte illegittima e altre volte iniqua solamente per mantenere delle scadenze temporali. Sosteniamo quindi la richiesta di proroga dei termini di pagamento che alcuni rappresentanti degli studenti eletti nel CDA dell'ateneo hanno presentato perché necessaria a ristabilire un minimo di equità. 

Lia Valentini_segretaria PRC Circolo di Siena 
Francesco Andreini_segretario PRC Federazione Siena