di Marco Bersani

La crisi sovverte e modifica il quadro geopolitico
internazionale, mutando i rapporti di forza a livello
internazionale e rimettendo in discussione egemonie
storiche, sinora date per indiscutibili.
Da una parte le nuove potenze emergenti del
Sud del mondo, quali Brasile, India, Sudafrica
e Messico continuano a crescere e sviluppare il
proprio mercato interno, rivelandosi difficilmente
controllabili attraverso gli strumenti vecchi dei
Forum internazionali, come il G20, e, in alcuni casi,
rafforzando la costruzione di nuove aree commerciali
regionali sottratte all’influenza statunitense, come
l’area Mercosur in America Latina; dall’altra, sul
versante pacifico, l’asse economico e geo-politico tra
il gigante cinese e la Russia si va prepotentemente
affermando come epicentro degli equilibri
mediorientali ed asiatici, in una graduale scalata
al ruolo di leadership globale. Recenti statistiche
affermano come la produzione economica combinata
di Brasile, Cina e India supererà entro il 2020 quella
di Canada, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti,
e come, entro il 2030, più dell’ 80% della classe
media del mondo vivrà a sud. Stretto nella morsa
dei nuovi candidati all’egemonia internazionale, con
il vecchio partner europeo intrappolato nella spirale
delle politiche monetariste basate sull’austerità, lo
stanco impero statunitense affila le unghie e adotta
una nuova ambiziosa strategia per la riconquista
di una nuova egemonia globale diffusa. Nasce da
questa esigenza degli Usa l’enorme programma di
smantellamento delle residue barriere -commerciali,
giuridiche, politiche- al libero commercio e alla
libertà di investimento messo in campo in direzione
dell’Europa, attraverso il TTIP (Transatlantic Trade and
Investment Partnership) e in direzione di 11 paesi
che affacciano sul lato del pacifico (Messico, Canada,
Cile, Perù, Giappone, Australia, Malesia, Singapore,
Vietnam, Nuova Zelanda e Brunei) attraverso il TPP
(Transpacific Patrnership). L’obiettivo è la creazione
della più grande area di libero scambio del pianeta,che
comprenderà economie per circa il 60% del prodotto
interno lordo mondiale, interamente governata dalle
più potenti multinazionali economiche e finanziarie,
agli interessi delle quali andranno sacrificati tutti i
diritti sociali e del lavoro, i beni comuni e la stessa
democrazia. Se per gli Usa il TTIP rappresenta la
necessità di “legare” alla propria economia il massimo
numero di aree geo-politiche e commerciali possibili, per l’Unione Europea si tratta della più evidente e
definitiva dichiarazione di resa di un continente che,
già da tempo, attraverso la scelta della via rigorista
e monetarista in economia, ha deciso di rinunciare
alla propria originalità -quella di uno stato sociale,
frutto del compromesso fra capitale e lavoro del
secondo dopoguerra- per consegnarsi alle leggi
dell’impresa. Se, fino all’inizio del nuovo millennio,
l’Europa si presentava in maniera aggressiva dentro
i contesti degli accordi internazionali – pensiamo al
ruolo dell’UE all’interno del Gats nell’Organizzazione
Mondiale del Commercio- presentandosi come un
continente che, lungi dal proteggere le popolazioni
dalla globalizzazione neoliberista, si candidava ad
assumerne la guida, con l’adesione ai negoziati
per il TTIP, l’Europa dichiara il fallimento di quella
strategia e, nel contempo, rinuncia ad ogni tentativo
di esercitare un proprio protagonismo sociale, per
giocare la partita di una competizione internazionale,
tutta giocata al ribasso in tema di diritti del lavoro,
di beni comuni e servizi pubblici, di diritti sociali e
ambientali.
Ma, al di là delle esigenze geo-politiche, il significato
profondo del processo in corso con il TTIP (e con il
gemello asiatico del TPP) è la consegna, dietro la
strategia di riconquista della scena internazionale
da parte dei vecchi padroni del mondo (Usa – Ue –
Giappone), delle sorti del pianeta ad un disegno
di politica economica mondiale che vede, forse
non per la prima volta ma certo mai con questa
intensità.,il totale protagonismo politico delle grandi
multinazionali, non più “relegate” ad un ruolo di
influenza e pressione esterna sulle istituzioni politiche,
bensì sedute a pieno titolo e in posizione privilegiata nei tavoli di negoziazione.
Questo fatto rende il TTIP il luogo, dentro il quale si
profila, per la prima volta nella storia, la costruzione a
tavolino di un’area planetaria di libero scambio messa
in campo da un’ elite transnazionale che, superando
i confini tradizionali fra Stato e privati, tra governi
e imprese, si sottrae ad ogni possibile controllo
democratico.
Di fatto, e se approvato, il TTIP realizzerebbe l’utopia
delle multinazionali : un pianeta al loro completo
servizio, fino al punto di poter chiamare in giudizio
presso una corte speciale, composta da tre avvocati
d’affari rispondenti alle normative della Banca
Mondiale, un qualsiasi paese firmatario, la cui scelte
politiche potrebbero avere un effetto restrittivo sulla
loro “vitalità commerciale”; potendole sanzionare
con pesantissime multe per avere, con le proprie
legislazioni, ridotto i loro potenziali profitti futuri.
E per le elites dell’Ue rappresenterebbe anche la
possibilità di superare in avanti, attraverso un “meta-
trattato” strutturale, l’attuale difficoltà nell’ imporre,
Stato per Stato e governo per governo, le politiche
di austerità e di smantellamento dello stato sociale,
artificialmente indotte dalla crisi del debito pubblico.
L’opposizione radicale al TTIP, oltre che una
inderogabile necessità per le vertenze e le
conflittualità promosse da qualsiasi movimento
sociale attivo, rappresenta anche una grande
opportunità : ottenere il ritiro “senza se e senza ma”
di quello che rappresenta un disegno esaustivo
e totalizzante di un’Europa al servizio dei mercati,
metterebbe automaticamente in campo l’opzione di
un’altra Europa possibile, quella dei popoli, dei beni
comuni, dei diritti e della democrazia.
Consigliamo in proposito la lettura del numero di marzo del "Granello di sabbia", mensile di Attac, un numero monografico dedicato interamente al TTIP, consultabile online cliccando qui!
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